Amor Vincit Omnia

Corre. Corre Sophie, corre lungo la strada asfaltata che costeggia il bosco, corre in salita, incurante dell’affanno, sulle gambe sempre più esili ma che si impone diventino forti.
Svolta nel sentiero che si perde tra gli alberi, non vuole sentire altro se non il silenzio.
Le voci che sibilano nella sua mente sono già troppo rumorose per poter sopportare altri rumori.
Silenzio.
Solo il respiro sempre più affannato, il cinguettio degli uccelli, la voce del vento che scuote i rami degli alberi di una valle e di montagne che le sono sempre state amiche, che ha sempre amato, che sono state il suo rifugio sin da bambina.
Continua a correre, inizia a sentire freddo, le gira la testa, ma non si ferma. Non può fermarsi, non vuole arrendersi perchè ciò significherebbe disobbedire a lei, alla sua unica amica, a colei che le ha promesso che se sarà perfetta meriterà amore, non sarà invisibile. Finchè sarà solo “abbastanza”, non sarà indispensabile, non sarà degna di ricevere amore da chi ama, nè di darne perchè impura, goffa, invadente, inopportuna.
Corre, risale l’ultima china scoscesa, le lacrime agli occhi per un vuoto che sente scavarle l’anima giorno dopo giorno, sempre di più, che la sta trasformando in una creatura diffidente, schiva, silenziosa, triste, arrabbiata con il mondo e arida, almeno apparentemente.
È arrivata in cima, potrebbe fermarsi, non lo fa, non può.
Deve scendere, deve correre controllando le gambe, resistere alla pendenza e affondare il passo. Non sente fatica, o forse si impone di non sentirla; la testa gira, la vista spesso è annebbiata, come se dovesse svenire, il cuore batte velocemente, poi ha un tuffo e rallenta, quasi non si sente, eppure lei continua a correre.
Corre da ferma, si butta a capofitto nello studio, nello sport, ovunque sa che un suo successo può rendere fiero chi ama, può bearla di un “sei stata brava, siamo orgogliosi di te”.
Cerca di aiutare in casa il più possibile; in modo ossessivo si dedica ad ogni attività che sa che se compiuta da lei non implicherà un senso di colpa per essere stata di peso ad altre persone. Rigore, controllo, regola, dogmi: questo è ciò che la sua aguzzina le impone di rispettare. Questo è ciò che la sta condannando ad un’esistenza autistica, fatta di schemi e imperativi categorici da non trasgredire se non vuole incorrere nel senso di colpa, la scure con cui l’anoressia flagella le proprie vittime.
Sophie vive di schemi, di catene invisibili che le stringono i polsi, che le inchiodano i piedi, che le bloccano quelle gambe con cui vorrebbe correre libera in mezzo a verdi prati sconfinati, senza pensieri, senza voci nella testa che le urlano “Tu devi”.
Tu devi essere perfetta, tu devi obbedire, tu non devi fermarti, mai; tu devi eccellere, primeggiare, superare te stessa, ogni tuo limite; solo così potrai rendere chi ami fiero di te, solo così si accorgeranno che esisti. Scompari per essere visibile, annullati per esserci. E dimostrati forte, inscalfibile, incrollabile, superiore ad ogni avversità.

E mentre Sophie soffocava ogni libertà esistenziale affamandosi e sfinendosi di attività fisica, l’ago della bilancia iniziava la sua inarrestabile discesa: 51, 48, 45, 43, 41,2 kg.
11 kg persi in due mesi senza quasi rendersene conto, sotto gli occhi atterriti, addolorati e impotenti della sua famiglia. Senza nemmeno accorgersene, Sophie stava scomparendo; la rabbia, il dolore, le davano l’adrenalina necessaria a perseguire quell’infernale ascesa all’etereo nulla.
E mentre le ossa delle costole e della schiena iniziavano ad affiorare paurosamente dalla carne, sbattendo contro la plastica e il ferro di un corsetto per la scoliosi che la imprigionava e nascondeva da ormai quattro anni, il dolore e la paura scavavano ferite ancora più profonde.
Nell’anoressia il dolore più grande non è la perdita di peso, quello è solo un sintomo, la punta dell’iceberg. Il
dolore sta sotto, in profondità e allo stesso tempo affiora impetuoso instillando un senso di colpa per la sofferenza che si arreca a chi si ama. Eppure, malgrado Sophie si rendesse conto del male che si stava facendo e del dolore che stava causando alla propria famiglia, al papà e alla mamma, ai nonni e alla zia, alla sorellina che non si capacitava di quelle ossa che le affioravano spigolose dal collo insieme ad una rabbia che riversava contro il mondo e se stessa, non riusciva a smettere, non riusciva a sconfiggere quell’arpia che dominava un lato di sè promettendole etereità in cambio di un annullamento lento e angoscioso.
Cercava di uscire da un guscio di plastica che la avvolgeva come un bozzolo da troppi anni, che la faceva sentire diversa, che le causava dolore e le cui cicatrici si vedono ancora oggi, sulle anche, sotto le braccia; voleva scappare da un involucro che anno dopo anno, malgrado l’utilità e il beneficio che le aveva dato, si era reso insopportabile al punto da desiderare eliminarlo. Ma non poteva e non voleva nè lamentarsi nè sottrarsi a quel bozzolo che alla fine era uno scudo dal mondo che il suo corpo in evoluzione non aveva mai visto.
C’era chi stava peggio, non poteva cedere a causa di un apparecchio antiestetico.
E invece alla fine, Sophie crolla, a pezzi, vinta dal suo stesso silenzio, dalla sua stessa ostinazione, dalla sua stessa ambizione, determinazione e da quella volontà caparbia che le si erano ritorte contro. Per eccellere era sprofondata in un vortice che trascina sempre più in basso; per camminare in punta di piedi senza disturbare, senza pesare sugli altri, senza chiedere aiuto, era scivolata spezzandosi le ali.
Affamata di un cibo immateriale, di un nutrimento che per fortuna, quando genuino e puro, non può mai saziare ma solo riempire, Sophie si nutre di vuoto. La sua aguzzina risucchia ogni rara emozione positiva che la ragazza
riesce a provare; felicità, serenità, amore, non ci sono più. Un mantello granitico isola un cuore che tuttavia ancora pulsa e sa cosa sia l’amore, sa cosa significa provarne, donarne e riceverne. Ma per far breccia nel granito, serve la dinamite, e dall’esterno non si può generare un’esplosione interiore. Solo Sophie può far brillare quella roccia con il fuoco che dal suo cuore, vulcano dormiente, si può sprigionare.
La chiamano Fame d’Amore; l’anoressia è forse una delle psicopatologie più affascinanti, crudeli e quasi incomprensibili con cui la società odierna deve fare i conti. La sintomatologia è chiara e la diagnosi facile; ma se spiegare la malattia è semplice, è comprenderla che si rivela ostico. Chi ne soffre ha tutto, apparentemente: una vita agiata, una famiglia alle spalle, eccelle a scuola o sul lavoro, è bella e intelligente, ambiziosa e determinata – parlo al femminile perchè la maggior parte delle vittime è donna, ma i DCA affliggono anche un numero sempre crescente di ragazzi e uomini – eppure, si odia. Si sente goffa, insignificante, invisibile, esclusa, mediocre, mai abbastanza; ed è proprio quel “non essere mai abbastanza” che la uccide e la svuota facendole credere che per meritare amore debba eccellere, sempre comunque, anche andando oltre i propri limiti, fino a distruggersi.
Per aiutare qualcuno a guarire dall’anoressia, non è sufficiente dargli del cibo, costringerla a seguire un regime alimentare ipercalorico per riprendere peso. Certo, tornare a nutrirsi servirà a mantenerla in vita, ma mentre il corpo recupera, se la gramigna non viene estirpata dalla radice, l’anima muore. Il vuoto continua a sprofondare, il ghiaccio ad espandersi attorno al mantello granitico che avvolge il nucleo caldo del cuore, l’angoscia a gettare nello sconforto e nella depressione chi ne soffre e, senza più possibilità di voler volere, senza più forze mentali per reagire alla distruzione, si lascia trascinare, in fondo, sempre più giù, nell’abisso di se stessa.
Comprendere, comprendersi; ascoltare, ascoltarsi, queste sono le medicine iniziali con cui curare davvero l’anoressia e i DCA in generale.
L’amore, la pazienza, l’accettazione e comprensione, nonostante la paradossalità di una malattia in cui per vivere nella forma più assoluta di perfezione ed eccellenza, si arriva anche a morire, sono essenziali per dare speranza e sprone a reagire.
Solo nel momento in cui si dimostra la volontà di comprendere la malattia, si aiuta chi ne soffre ad immergersi dentro di sè per capire quali ragioni l’hanno spinta a sporgersi sul bordo del baratro.
Sophie nel pieno della malattia non aveva idea delle ragioni che l’avevano sprofondata nel nulla più nero. Quando venerdì 9 Ottobre 2009 i genitori, pieni di angoscia e sofferenza per la situazione in cui versava la figlia da ormai tre mesi, la portarono in ospedale per una visita specialistica endocrinologica – poichè credevano che la causa di ciò che le aveva risucchiato linfa vitale, fino a ridurla ad uno scheletro che navigava, senza energia, nei jeans taglia 34 e nella larga felpa con cui sperava di nascondere l’inedia – avesse origine fisiologica, la prima cosa che la Dottoressa disse loro fu “vostra figlia è anoressica, non ha altre patologie fisiche gravi, l’emocromo parla chiaro, ma i suoi occhi ancora di più”.
Sophie non lo scorderà mai quel momento; non pianse, non disse nulla; la fissò negli occhi verdi, brillanti, seduta di fronte a lei in quello studio tutto bianco, alle sue spalle i genitori, attoniti e dilaniati dal dolore e da un ingiusto senso di colpa ed impotenza, mentre quella sentenza, calma ma con un messaggio tagliente come una lama affilata, la schiaffeggiava, umiliandola e compiacendola allo stesso tempo. Ancora una volta
l’anoressia scindeva l’Io di Sophie, che da mesi ormai oscillava in un angoscioso senso di frustrazione tra poter essere e dover essere, libertà e schiavitù, frenesia e impotenza, lacrime di dolore e rabbia, desiderio di amare e allo stesso tempo di fuggire e di isolarsi per proteggersi dall’abbandono che inevitabilmente, prima o poi, per un motivo o per un altro, ci sarebbe stato.
Era come se in lei albergassero due anime, una oscura e aguzzina e una lucida e desiderosa di vivere, di essere libera ma tenuta al cappio dalla sua controparte più forte. Per non cadere vittima del senso di colpa e per l’umiliazione di non essere stata all’altezza di obbedire alle imposizioni e restrizioni della sua aguzzina, la volontà sana si costringe a piegare la testa a ad accondiscendere a colei che invece, nera e mortifera, solleva superba e subdola il capo, compiaciuta per una perfezione annichilente che a breve la sua vittima, grazie a lei, raggiungerà.

Intanto Sophie non è altro che il palcoscenico di questa lotta interiore tra titani, l’Io e un Super Io malato di strapotere. Il suo corpo diventa il campo di battaglia, ma è il suo cuore il luogo più minato.
Dopo la diagnosi ricevuta, il lato malato della volontà di Sophie ha vacillato, non tanto per il timore di essere sconfitta, ma perchè la sua gemella sana, udite quelle parole di verità e percepito potentemente il dolore e quell’ingiusto senso di colpa che le persone amate provavano, ha sollevato la testa malgrado le catene che la tenevano bloccata in una cella tetra sepolta chissà dove nell’Io di Sophie.
Trema la rocca su cui si erge la despota, inizia a franare nonostante continuino ad essere edificate barriere di protezione per evitarle lo sfacelo. Un passo avanti da parte della ragazza nell’affrontare la malattia e accettarne le cure, corrisponde ad una violenta sferzata della frusta impugnata dalla volontà nera che genera un
implacabile senso di colpa per aver osato abbandonare il tracciato che l’avrebbe condotta sino alla morta perfezione.
Mangiare un intero piatto di pasta senza andare subito a correre per smaltirlo, non svolgere alcuna attività sportiva per non consumare le precarie energie concesse al corpo, osare mangiare un cioccolatino o fare l’aperitivo con la mamma quando rientrava dal lavoro, anche se era cibo che eccedeva rispetto alla dieta prescritta dalla nutrizionista, era una vittoria per Sophie e un colpo inferto dalla sua volontà di vita alla gemella aguzzina.
Libera dalle catene che le sferzavano i polsi, la vita torna a fluire nelle vene della ragazza: gli occhi tornano a brillare e malgrado la sofferenza, il mal di stomaco, il senso di colpa e le lacrime, il peso torna lentamente a crescere, mentre la carne torna a coprire le ossa ancora visibili. E mentre il corpo, sferzato dai colpi delle due volontà in piena guerra tra loro, pian piano recupera energia e tono, la vita cerca di restituire dignità e volontà di vivere anche all’anima, all’Io, che fino a quel momento, perso, si vedeva vedersi attraverso una moltitudine di frammenti di sè in cui non si riconosceva.
A testa alta, la volontà di vivere si risolleva, e avanza puntando dritta contro la sua aguzzina: mentre sferza il primo colpo di spada durante il duello contro la sua gemella malefica, Sophie pranza con la sua famiglia; sono tutti riuniti, davanti ad una tavola imbandita di ogni leccornia durante la festa più attesa dell’anno, quella che ha sempre amato, di cui si sentiva parte, come una lucina sull’albero di Natale. Sorridono, parlano, si mangia e si beve, in modo contenuto, come sempre è stato fatto, e per quel giorno la Dottoressa ha detto che può
mangiare senza rispettare le grammature prescritte nella dieta. Sophie vuole mangiare di tutto un pò, senza farsi problemi, ce la sta mettendo tutta. È difficile, nonostante siano passati due mesi da quando le è stata diagnosticata l’anoressia e il peso stia tornando a salire. Ha anche iniziato a provare a ravvicinarsi al cibo sfogliando le immagini dei foodblog che divora con gli occhi, imparando a cucinare, soprattutto dolci, quelli più temuti e forse quelli che più rievocano l’affetto di cui ha bisogno. Qualche anno dopo da questa dedizione e passione per la cucina, creerà Favole a Merenda – Baking Therapy, in cui ricette, scrittura e fotografia si uniscono raccontando favole e cercando di trasportare i lettori in una dimensione magica, per gli occhi e per il palato. Adora cucinare, per riprendere confidenza con i sapori e per rendere felici le persone che ama, con quei piccoli gesti che all’inizio per lei significavano fatica e sudore. Mentre si sforza di mangiare tartine, lasagne, panettone, sbocconcellando di tutto un pò, a fatica, le due combattenti si affrontano implacabilmente.

Cade una sotto i colpi dell’altra, si rialza e colpisce l’avversaria che a sua volta cede e recupera; e intanto Sophie mangia, a volte piange, un pò per il senso di colpa d’essersi nutrita, a volte per il senso di colpa per aver contato le calorie ingerite quando si era ripromessa d non farlo.
La sua tensione è tangibile, ed è proprio questo logorio interiore che va curato. Cosa lo causa? Ci vorranno otto anni perchè Sophie riesca a comprenderlo davvero.
Dall’anoressia ci uscì dopo un anno, aveva imparato a nutrirsi regolarmente, senza farsi quasi più problemi; si era diplomata con risultati eccellenti, aveva ricominciato a fare sport per aiutare i suoi muscoli a rinvigorirsi dopo quel lungo letargo. Pesava 48 kg, aveva tolto il corsetto, e dopo un anno, dopo aver iniziato a frequentare l’università, prima con Legge e poi passando a Filosofia, le era tornato anche il ciclo mestruale. Si sentiva di
nuovo viva, libera.
La volontà di vivere, dopo una lotta cruenta che l’aveva pesantemente provata, era riuscita a piegare la sua aguzzina. Non l’aveva uccisa, ma era riuscita a imprigionarla in una teca di piombo. Non si può uccidere ciò che è già morto. Distruggerla avrebbe significato eliminare una parte di sé, ma proprio quel lato oscuro, sebbene malvagio e fonte di sofferenza, aveva contribuito a rafforzare quella determinazione, quella caparbietà, quell’ambizione e precisione che portava con sé. Eliminare la parte di sé che era stata anoressica avrebbe significato ancora una volta, non accettarsi per ciò che era stata, che era il suo essere; un essere ferito, con delle cicatrici, eppure suo, parte della sua storia e fonte di riflessone e memoria.
Sarebbe bello cancellare ciò che ci ha fatto male, ma non si può; lo si supera combattendo, cadendo, rialzandosi, magari cadendo di nuovo, ma non si vince senza combattere, non esistono conquiste date dalla negazione. Sophie ricominciò a sorridere, a non curarsi più di quante calorie ingeriva, di quanto sport faceva, si innamorò per la prima volta, fu felice, ma ancora una volta conobbe l’abbandono e di nuovo, dalle pareti di piombo della sua prigione, la despota tornò a urlare, consapevole che la varietà di seme che l’aveva fatta nascere non era ancora stata scoperta. L’eco delle sue grida si faceva sentire, ogni giorno più forte, ma Sophie non cedeva. Consapevole del dolore che l’anoressia aveva arrecato a lei e in tutta la sua famiglia, l’ultima cosa che voleva era cedere a quelle urla strazianti, lamento di una creatura morta e viva allo stesso tempo. Un vuoto mai sanato, un senso di inadeguatezza e insufficienza, quella costante domanda “e se fosse colpa mia, se fossi sbagliata e per questo complicata?” che la tormentava, la solitudine che di nuovo si faceva largo, portandosi lontano
all’improvviso e senza ragione, le poche amiche che aveva incontrato sulla sua strada, stavano marciando ad ampi passi dentro di lei.
Mentre lottava contro se stessa per non cedere, mentre si sforzava di sorridere, di stare in compagnia, di eccellere negli studi e nello sport, dandosi da fare per non pensare, per non pesare, iniziò a difendersi da un mondo in cui si sentiva sempre fuori posto chiudendosi a riccio, iniziando a non fidarsi più, né di sé, né degli altri. Malgrado la maschera radiosa che indossava quando era in compagnia, la sua indole era solitaria e diffidente; solo così riusciva a proteggersi dagli errori che inevitabilmente avrebbe commesso, dalla vergogna che avrebbe provato per la sua goffaggine, per le critiche, dal mettersi in gioco rischiando di trovarsi nel centro della scena. Voleva fuggire, lontano dallo sguardo giudicante di chi non sapeva, ritirarsi nel suo mondo fatto di perchè e analisi.

Ma di soli pensieri e dubbi non si vive, ritirarsi nel proprio mondo per paura di sbagliare, per paura di cadere di nuovo e farsi male, chiudersi in una campana di vetro per non rischiare di soffrire di nuovo, non ha senso; non più di quello che avrebbe ridursi pelle e ossa per chiedere aiuto senza disturbare.
“Stai male, dillo! Lasciati aiutare, ammetti che hai bisogno di qualcuno. Non hai rubato, non hai ucciso, perchè dovresti vergognarti? Chi ti ama, chi ti vuole bene, vuole che tu chieda aiuto se soffri; vuole che tu ti ami, e amarsi significa anche ammettere che si sta male e che si ha bisogno di auto. E aiutarti è tutto ciò che desiderano per poterti vedere star bene, per vederti essere felice, davvero, senza maschere. Se stai zitta e piangi in silenzio e di nascosto, indossando ogni giorno una maschera che ti rende primavera se invece dentro hai l’inverno, non ti si può aiutare. È necessario che tu permetta all’altro di amarti, che ti lasci aiutare. Aiutami ad aiutarti”, le
aveva ripetuto spesso il nuovo fidanzato, allo stesso tempo così diverso e simile a lei.
Si erano amati tanto, si erano amati davvero, non solo innamorati; per tre anni erano stati animati da un amore puro, sincero, che si erano sudati a lungo, conquistando l’uno la fiducia dell’altro e superando iniziali diffidenze e numerosi e continui ostacoli, forse troppo grandi per due ragazzi di 25 anni che credevano di farcela insieme, ma che alla fine, con la morte nel cuore, hanno dovuto lasciarsi andare, liberi, ognuno per la sua strada, perchè troppo diversi per poter essere una cosa sola; erano due magneti con la stessa polarizzazione: quanto più desideravano avvicinarsi, tanto più una forza superiore si frapponeva tra loro. L’unica soluzione era la libertà, con la consapevolezza e un’immensa gratitudine per l’amore e gli insegnamenti reciproci che si erano scambiati in quei tre anni. L’errore più bello che si poteva commettere, quello che avrebbe voluto ripetere all’infinito, quello che le aveva dato la forza di reagire quando, stremata, per il timore di crollare di nuovo tra le braccia dell’anoressia a causa di quel vuoto sconfinato che le si allargava nel cuore, per il senso di impotenza dovuto a lotte che da sola non riusciva più a combattere, sfinita da quel senso di inutilità per un futuro che non vedeva nonostante i risultati eccellenti conseguiti negli studi. Grazie a lui e alla sua famiglia si era decisa a fare quello che avrebbe dovuto fare nove anni prima: consultare una psicologa.
Le parole di quel ragazzo le erano state ripetute dal padre molti anni prima, e mercoledì 8 Marzo 2017, dopo l’ennesimo attacco di panico, di nuovo, accanto a lei, l’aveva fatta reagire. Lui, il suo mentore, il suo Superman, il modello da prendere come esempio, sempre. Aveva ancora gli occhi stanchi, ma la voce era ferma, malgrado l’apprensione. Sapeva di essere la sua roccia, sapeva che Sophie contava su di lui e su quelle parole che già le
aveva ripetuto ma che ogni tanto, visto l’orgoglio della figlia e il suo brutto vizio del “non voler essere di peso”, andavano rispolverate. E così, supportata dall’amore della famiglia, degli affetti, e di amicizie vere che piano piano stavano nascendo, Sophie imparò ciò che per l’uomo dovrebbe essere naturale, chiedere aiuto quando necessario, quando si sta male. Imparò a mostrarsi debole, a non fare sempre l’eroina o a muoversi n punta di piedi per non fare rumore; perchè anche i supereroi da soli non ce la fanno a sconfiggere il male, e anche le ballerine scaligere dopo ore sulle punte devono tornare a camminare normalmente.
Un anno dopo, Sophie era rinata: aveva imparato a parlare, a dire di no, a esprimere la sua opinione senza timore, ad accettare i rifiuti senza scambiarli per abbandono e disappunto; aveva imparato ad amarsi e ad accettarsi con ogni suo difetto o mancanza, consapevole ora che non si può amare davvero se prima non si vuol bene a se stessi.

Come si può dare amore senza sapere cosa sia? Sai cosa significa non averne e desiderarlo, perchè tu stessa per prima non ti ami: come puoi pretendere di donare ciò che hai solo ricevuto? Puoi donare amore che viene da te, da te che per prima ami te stessa, non quello che proviene da altri, sarebbe solo un riflesso.
Come può amare chi odia se stesso? Nel momento in cui Sophie imparò ad amarsi ed accettarsi, fu consapevole di poter amare davvero l’Altro, e conobbe anche cosa significa veramente perdere chi si è amato con tutta l’anima. Ma seppe reagire, stavolta a testa alta, malgrado il dolore. Senza rimpianti, senza rancore, solo con riconoscenza per il passato e occhi limpidi verso un futuro che ora sapeva come voleva che fosse, anche se difficile, anche se le sarebbe costato critiche.
Si laureò a pieni voti con una tesi che riprendeva la precedente, focalizzandosi proprio sull’anoressia e sulle
psicopatologie, ottenne un incredibile e inaspettato riconoscimento da parte del proprio relatore che ebbe fiducia in lei e, battendosi contro i disturbi alimentari, iniziò a collaborare con Nutrimente, nata proprio nello stesso ospedale in cui anche lei vide la luce venticinque anni prima, il San Paolo di Milano.
Concluse il Master a cui si era iscritta e venne subito presa in stage presso una società che la aiutò a temprare ulteriormente il carattere, forte e fragile allo stesso tempo, insegnandole molto, facendola sentire utile, accrescendo la fiducia in se stessa restando sempre umile, e infine rendendola davvero parte del team e consentendole di intraprendere un viaggio in cui ha ancora tanto da dare e da imparare.
Oggi Sophie è radiosa; ha una famiglia, amici e amiche che adora e su cui sa di poter contare sempre. L’anoressia, gli attacchi di panico, la depressione in cui era caduta, non sono state cancellate; non le vuole eliminare. Sono parte di un passato che sa non tornerà più, perchè ormai ha imparato a chiedere aiuto, a parlare, ad accettare e amare se stessa. Adora la vita ed essere solare e radiosa; non permetterà più a niente e a nessuno di spegnerle il sorriso.
Sa che ci saranno altre lacrime, altri dolori, altre sconfitte, ma è anche consapevole che se c’è il buio, la luce si può sempre accendere, se si cade ci si rialza, se si sbaglia, si ha modo di correggersi ed imparare.
Ama il fluire della vita, con i suoi alti e bassi, il suo divenire, le sue imperfezioni che non la rendono mai monotona e perfetta.
Perchè accontentarsi della perfezione?
Perchè rinunciare a vivere in nome di qualcosa che di per sé è morto?
Cos’è perfetto in un mondo che vive di evoluzione, imperfezione, divenire, movimento, cambiamenti? Perfetto è ciò che è immoto, che non ha bisogno di cambiare, che per sua essenza è definito, e da come è non cambia.
Ma che vita sarebbe, per noi essere umani – così volubili e in costante divenire, al passo con la realtà mortale ed eterna in cui esistiamo – una vita destinata all’immutabilità? Rinunceremmo a tutto; perchè ogni cosa muta, in ogni istante noi cambiamo e la realtà pure. Cambiamo noi, i nostri corpi, le nostre storie, le persone che incontriamo, le cose, le circostanze, la storia, i gusti, le idee, i sentimenti, le emozioni che non si limitano a mutare, ma travolgono, positive o negative, ti investono, e se ciò accade è perchè si è vivi. E cosa può esserci di più bello della consapevolezza di esserci, di esistere; e aggiungiamoci la fortuna di essere sani, di poter respirare, correre, ridere, pensare, scegliere, decidere, amare e trasmettere emozioni e vita, e tanto altro.
Che senso avrebbe esserci, e non poter esistere? Esserci e non potersi abbandonare, vivere e plasmare secondo la propria persona, il proprio Io, alle correnti di quel fiume in cui tutto scorre e ogni cosa diviene: è una condanna, è contro natura. E l’anoressia ambisce a questo. All’eterna, dannata perfezione; una ghigliottina infiocchettata, luccicante, ornata di nastri e fiori che ammalia e attira a sé coloro che sono più fragili, coloro che non osano chiedere aiuto per non disturbare, per apparire forti nonostante sentano la terra sgretolarsi sotto ai piedi. Una prigione dorata, un ergastolo e una condanna a lavori forzati, in isolamento.
Chiedete aiuto. Aiutate ad aiutarvi. Chi vi ama, vi ama proprio per ciò che siete, non vi vuole diverse, non vi vuole solo felici. E non può essere felice chi si annulla per esistere; chi urla in silenzio per chiedere aiuto; chi vomita rabbia e dolore nell’ombra; chi corre fino a svenire; chi rinuncia all’amore in ogni sua forma; chi dice di voler amare, ma prima non ama se stessa.
Imparate ad amarvi, dite di sì alla vita e a voi stesse. Permettete alla vostra volontà di voler volere di nuovo, di voler vivere, di voler sconfiggere e mettere a tacere quel lato dispotico della vostra volontà che vi illude che il dover essere sia vangelo e la perfezione l’ambizione suprema grazie alla quale potrete non soffrire più ed essere degne di amore.
No. Non esiste perfezione. Non esiste felicità dove c’è perfezione. Non esiste emozione, né sentimenti, né amore, dove c’è perfezione. Va oltre i limiti umani, va oltre l’essere; ma oltre l’essere, torna il non essere, e il non essere, se non è, è morto.
Come si può amare, essere felici e permettere all’altro di amarvi se gli negate la vostra presenza, la vostra gioia, i vostri occhi luminosi, addormentati la mattina e stanchi la sera, le guance arrossate dal freddo, i capelli scompigliati, le vostre lacrime e i vostri sorrisi, ogni singola emozione, ogni scintilla di vita che sprizza dal vostro corpo, ogni singolo e imperfetto gesto quotidiano da condividere insieme?
Chiedete aiuto, parlate, rivolgetevi a chi vi ama e a chi può aiutarvi. Lasciate che la tempesta vi travolga, cadete e accettate la mano tesa pronta ad aiutarvi. Rialzatevi, a testa alta. Una volta in piedi, con lo sguardo fiero e grato, dirigetevi verso un nuovo orizzonte, quello che profuma di vita e libertà, quello che magari vedete in lontananza; e se per raggiungerlo dovrete scalare montagne o attraversare mari in tempesta non preoccupatevi, non sarete sole, mai.
È la vita: un percorso a ostacoli, un oceano calmo, una montagna russa, una valle florida, un bosco di rovi, un fiume cristallino, un uragano, una prateria immensa e senza confini, una salita ripida e faticosa, un cielo terso in un giorno di primavera, un precipitare nel vuoto, la gioia di un bambino nel giorno di Natale.
È questo e molto altro ancora, ed è innamorarsi ogni giorno, di sé, dell’Altro e di Lei.
Cadete e rialzatevi, siate fenici. Anche loro rinascono dalle ceneri per spalancare ogni volta le ali verso nuovi e radiosi orizzonti, libere, come Sophie, che oggi, posso garantirvelo, nonostante le cicatrici che la sua battaglia le ha lasciato, è pronta a volare verso i suoi orizzonti e le sue montagne, solcando le correnti del vento della vita.
Si, ora lo posso urlare a squarciagola, Sophie è pronta!

Giulia

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